E’ stato Raffaele a farmi amare Zucchero Sugar Fornaciari. Di lui conoscevo già Donne, un singolo con cui l’artista reggiano aveva partecipato a San Remo nel 1985 arrivando penultimo, e Rispetto, un brano più giovane di un anno, con un testo che inneggiava alla mia sacrosanta voglia di libertà. Non certo una testo indispensabile per la storia della musica, ma per fortuna non serve essere straordinari per restare nella memoria.
Il 1989 arrivò Oro, incenso e birra e allora fu una festa. Avevo 16 anni, che anche i professori sono stati adolescenti, e quel disco fu per me una benedizione, un’overdose d’amore.
Frequentavo il secondo anno delle superiori e più di ogni altra cosa amavo i miei amici, il mio bravo e una ragazza che mi scriveva dalla lontanissima Villach.
Fu con quell’album che prese forma curiosamente la filosofia: un pensiero strafottente, o forse solo estremamente leggero, che poteva fare a meno persino di Nietzsche.
Il mare impetuoso al tramonto salì sulla luna dietro una tendina di stelle divenne presto un tormentone da urlare in coro nelle giornate in cui la vita suonava più forte delle nostre voci. Eravamo noi i diavoli che cantava Zucchero, noi i giovani nel vento che cercavano di salvarsi dai propri ormoni e dall’inglese che continuava a rimanere un mistero glorioso.
L’amore si era accomodato in Iruben me, un testo che prevedeva le inondazione che sarebbero arrivate puntuali, ma la pioggia lasciava spazio spesso ad un sole improvviso, che si liberava in un assolo meraviglioso di Corrado Rustici.
Ai giorni buoni seguivano quelli in cui strisciavamo la catena dell’adolescenza: un peso non semplice da portare e di cui noi adulti dovremmo ricordarci.
I salti nel blu erano però meravigliosi e l’infinita tenerezza resiste in un ballo lento al Motel Astj con la mia professoressa di Italiano, il vero diamante di quegli anni meravigliosi e terribili in cui abbiamo davvero imparato a camminare.
Liberate l’amore, ragazzi, o liberatevene per sempre!
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Oro, incenso e birra di Zucchero Fornaciari
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