Non nominare il nome di Dio invano

Il prossimo 26 e 27 ottobre andrà in scena, al Teatro Sybaris, un testo di Raffaele Viviani. Si tratta de’ “I Dieci Comandamenti”, ultima opera del noto drammaturgo in lingua napoletana, scritta in collaborazione con il figlio Vittorio.

Viviani è autore particolarissimo, non solo per ciò che rappresenta nella tradizione del teatro in lingua, ma per il suo tratto singolare, capace di tenere assieme il comico ed il tragico in maniera mirabile.

Nel 2002 mi era capitato di apprezzare un suo testo, superbamente adattato da Enzo Moscato, proprio al Teatro Sybaris. Il mio amico Massimo Gatto, che allora dirigeva il rinato teatro del Protoconvento Francescano, su cui prima o poi ci toccherà scrivere in maniera particolareggiata, per la stagione 2002/2003, aveva selezionato fra gli spettacoli in cartellone Arena Olimpia: uno progetto teatrale che teneva assieme La musica dei ciechi di Viviani e Mirabilia circus dello stesso Moscato. Un esperimento teatrale enigmatico ed affascinante che aveva nelle acrobazie della vita di alcuni poveri cristi il suo motivo, scandito per l’occasione da Tonino Aiuti ed “I virtuosi di san Martino“.

In verità avevo già letto qualcosa del drammaturgo stabiese, ma l’allestimento fu folgorante. Per un frequentatore assiduo del teatro di Eduardo, Viviani poteva sembrare un rifugio comodo nella tradizione, la rinuncia alla vocazione universalistica del teatro umoristico dei De Filippo; scoprii, invece, un autore modernissimo capace, attraverso la mirabile rilettura del Maestro Moscato, di restituire umanità a tristi figure che con il tempo parevano averla perduta. Una drammaturgia sonora e plurale, censurata dalla scrittura di Dio, Patria e Famiglia degli anni ’30.

Sono proprio Dio e la famiglia i protagonisti del quadro che celebra il secondo comandamento. Lo sfortunato masterascio, che avrò l’onore di interpretare, chiama in causa proprio il Signore, a suo dire colpevole della miseria che lo affligge.

Un uomo collerico, disperato, vinto dall’indigenza e dalla fame, che trascorre le sue giornate bestemmiando, segando ed incollando piccoli pezzi di legno: un falegname di nome Giuseppe senza speranza, non accompagnato da alcuna (ma)donna, alle prese con il suo piccolo e con i topi che con il tempo hanno finito per sostituire nell’iconografia familiare del presepe il bue e l’asinello.

La grotta in cui vive è un vascio e la sua miseria è Santa. La santità non è però quella del pensiero canonico, ma piuttosto quella dello Pseudo Dionigi Aeropagita, che conosce Dio solo attraverso la negazione estrema.

Nel finale la sua preghiera si trasforma in una minaccia e la disperazione del mio e di altri personaggi riscrivono su tavole diverse, quelle del palcoscenico, le leggi grottesche di Dio e del teatro.

Vi aspettiamo.