La buona condotta del 8 febbraio 2019

In molti hanno auspicato ed auspicano una pratica didattica all’insegna della tecnica, dove la descrizione tassonomica sia protagonista dell’ora di lezione. Si tratterebbe, usando il dovuto rigore scientifico, di programmare con lucidità, sviluppare competenze, verificare gli apprendimenti, attribuire dei voti. In questa metodologia asettica c’è spazio per ogni forma tecnologica, per ogni analisi interna del testo. Il professore avrebbe semplicemente il compito di mettere a disposizione dei propri allievi le sue competenze retoriche. Ogni altra discussione, ogni altro modello ricorrente, ogni riferimento all’antico problema del canone rischia di diventare struttura ideologica.

Per me insegnare è un verbo retto dalla memoria, dall’esercizio e dalla prova. Una sorta di mise en éspace condotta con un piccolo pubblico privilegiato.

Ogni volta che entro in aula e misuro il mondo (la classe) con un testo, mi capita di ingaggiare una lotta serrata fra il fuori ed il dentro.

Fuori ci sono gli allievi che girano per il cortile, il richiamo sottile del bagno, le notifiche dei social, i continui gesti di Carlo; dentro le memoria delle mie (nostre) letture, i pensieri ricorrenti dei miei studenti, i guai di Cristina, la solitudine di Maria Francesca.

Provo, leggendo, a mettere d’accordo i suoni di tutti, tento di accordare strumenti diversi, fondo un luogo di discussione, uno spazio interpretativo. Il rischio del dissenso è altissimo e la prova ermeneutica diventa una sfida impossibile da risolvere.

L’unico rigore che conosco è quello dell’esercizio, l’unica religione che pratico è quella del tentativo.

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– E tu, che lavoro fai?
– Il prof. 
– Ah.
– Già.
– E… com’è?
Di solito rispondo “Eh, figo”.
Ma quello che vorrei dire in realtà è questo:
Stare in una stanza con venticinque persone, di cui almeno venti non hanno nessuna voglia di essere lì.
Questo, è fare l’insegnante.
Partire da casa con sei matite, dodici penne e ventotto pennarelli, e tornare a casa con in tasca solo una mezza matita mangiucchiata. Che non è neanche tua.
Questo, è fare l’insegnante. 
Avere amici che ogni volta che ti vedono, dopo il saluto, ti dicono: “Beato te che non fai un c…”.
Questo, è fare l’insegnante.
Dire una parola, o un’altra, e sapere che ogni volta la scelta potrebbe cambiare la vita di qualcuno.
A volte pure la tua.
Questo, è fare l’insegnante.
Ricevere messaggi su whatsapp da gente che non senti da mesi e che ti chiede come si scrive una parola, come se ne dice un’altra, o se si può dire “a me mi”.
Questo, è fare l’insegnante.
Asciugare lacrime, tenere mani, ascoltare silenzi. Spendere parti considerevoli del proprio stipendio in tè caldi offerti a studenti arrabbiati, ragazze doloranti, colleghi vicini a una crisi di nervi.
Questo, è fare l’insegnante.
Trovarsi di fronte a figli incazzati con i genitori, genitori incazzati con i figli, e soprattutto a genitori incazzati con te.
Questo, è fare l’insegnante.
Correggere per cinque ore di fila congiuntivi sbagliati, verbi presi a calci, sintassi torturate. E poi, al primo piccolo “ma però” detto in velocità, subire la gogna eterna.
Questo, è fare l’insegnante. 
Inscenare incazzature con tanto di monologhi shakespeariani degni di una candidatura all’Academy Awards.
Questo, è fare l’insegnante.
Vedere in prima fila storie d’amore strazianti che sbocciano il lunedì e finiscono il venerdì.
Questo, è fare l’insegnante.
Rispondere ogni giorno a tonnellate di domande di ogni genere, dalla riproduzione dei pesci-palla alla possibilità di una invasione aliena sulla Terra, ma soprattutto a una, sempre la stessa, che è: “Posso andare in bagno?”.
Questo, è fare l’insegnante.
Dividere risse, evitare incidenti potenzialmente mortali, rischiare l’infarto dalle due alle trenta volte al giorno.
Questo e poi tipo un milione di altre cose, è fare l’insegnante.
Ed è qualcosa che non farei a cambio con niente al mondo.
(Sì, lo so che non si dice “qualcosa che non farei a cambio”. Ma mi piace così. Almeno qui, lasciatemelo dire.)

Enrico Galiano