La buona condotta del 20 giugno.

Lo scorso giugno, mi capitò di leggere con poco interesse (non per via dell’articolo, ma per colpa dell’egoismo insano del professore del triennio) un articolo di Simone Giusti, professore universitario (Università di Lecce e Università di Losanna), sulla riforma dei professionali (decreto legislativo 61/2017).

Ero convinto che l’anno successivo avrei insegnato in un triennio e la riforma dei professionali avrebbe interessato per il 2018/2019 le sole classi prime. Una riforma che sarebbe andata a regime nel 2022/2023, a patto che non fosse arrivata un’altra riforma più riformatrice della precedente legge già riformata.

Un futuro così incerto, insomma, da non lasciare campo all’attenzione.

Contrari ai voti furo poi i successi: ad ottobre, con le assegnazioni provvisorie, mi sono ritrovato ad insegnare in una classe prima di un professionale.

Negli scorsi giorni un bravo collega mi ha girato un link e l’articolo di allora è tornato ad affacciarsi in un altro giugno. Un giugno inaspettatamente estivo, che chiude il cerchio di un’esperienza disastrosa.

Mi è così venuto in mente di rileggere con attenzione e riprendere alcune riflessioni proposte dal professor Giusto.

La prima è una riflessione numerica, che appunta il calo degli vertiginoso degli iscritti al professionale – dal 20,6 % degli iscritti alla scuola secondaria di II grado nel 2013 si è passati all’attuale 13,6%. Un calo che va letto, per quel che concerne la mia esperienze, in un processo di polarizzazione delle scelte, che ha visto il professionale perdente.

Ne avevo già scritto qui, ma vale la pena ribadire che la tendenza è quella di scommette sul Liceo.

I tassi di abbandono sono diretta conseguenza di questa logica (8,7% per gli istituti professionali, a fronte del 4,8% dei tecnici e del 2.1% dei licei, dati Miur 2016-2017) e i dati INVALSI in Italiano e Matematica confermano le difficoltà dei professionali, ampiamente al di sotto delle medie nazionali della secondaria di secondo grado.

Sono numeri che dicono molto sull’impianto della nostra scuola pubblica, ma pochissimo su quello che accade negli istituti professionali.

Provo a dire meglio.

La scuola professionale è fatta di Gianni qualunque, direbbe Don Milani, i Pierino, figli del dottore, sono tutti al Liceo. Sono ragazzi svantaggiati che meriterebbero una scuola d’eccellenza, come quella di Barbiana, ma invece si trovano solo una scuola dell’obbligo. Un obbligo che non ha cura di loro, un obbligo che divide e finge. Se è obbligo andare a scuola fino a sedici anni, allora dovrebbe essere obbligo per tutti, obbligo uguale, obbligo senza scelta, obbligo pari. E invece no: c’è obbligo e obbligo.

Alla fine di ciò che avrebbe dovuto essere obbligatorio sapere ci saranno studenti che avranno imparato qualcosa e allievi che. invece, non avranno raggiunto le competenze che occorrono per assaggiare un testo, assaporarlo, non saranno capaci di smontarlo per prendere il pezzo che più gli occorre. La scuola classista dalla quale volevamo difenderci è ancora lì, più dura e più cattiva, ma mascherata da madre generosa che concede tempo. Ha ragione Philippe Perrenoud, citato dal professor Giusto, a metterci in guardia da una scuola che divide e finge.

Divide i bravi da quelli non bravi a 14 anni e poi finge che i liceali e i ragazzi del professionale abbiano lo stesso diritto.

Il problema insomma non è l’accesso al terzo, ma l’accesso al testo.

Sulla querelle competenze e conoscenze non sprecherò troppo tempo. Se si tratta di parlare di conoscenze e competenze misurandole sulla bilancia della valutazione, allora il discorso è onestamente stucchevole. Se invece la prospettiva è di carattere più generale e serve a fissare una volta per tutte l’obiettivo che deve perseguire la scuola pubblica, allora si può provare davvero a correggere il tiro.

Per quel che riguarda i metodi attivi, i laboratori, l’alternanza, si dovrebbe ragionare con la dovuta attenzione. Scrivo attenzione perché è la primigenia mancanza (anche di questo mio articolo). La scuola non è attenta. La nostra società non è attenta alla scuola e alla formazione, noi in molte circostanze siamo distratti da mille insani egoismi.

L’attenzione è prerequisito della democrazia. Nella disattenzione e nell’indifferenza, nella lettura veloce (troppo veloce) si cade prigionieri della banalità e del qualunquismo.

Nella riforma dei professionali non esiste argine (come potrebbe, direbbe qualcuno) a questa crescente malattia. Il farmaco che propone la riforma è uno di quelli allopatici che combatte il sintomo. Ci sono troppi abbandoni e fallimenti scolastici? Bene, leviamo di mezzo la bocciatura!

In verità non è stato fatto nemmeno quello, perché nell’ultima circolare ministeriale è stata ribadita la possibilità di non ammettere l’allievo alla classe seconda.

Un disastro: l’ennesimo, fatto di carte da compilare, di classi che restano numerosissime (la mia prima ne aveva 28), di locali inadeguati, di Dirigenti con tre o quattro sedi da gestire (e quindi assenti), di insegnanti impreparati, di bidelli che non possono tenere aperte le scuole perché non ci sono soldi e di mille altre disattenzioni.

Servirebbe educare tutti (più di tutti quelli destinati alla politica) sin da piccoli all’ascolto attivo. Un’attività semplice che si basava sulla pratica degli appunti è stata quasi abbandonata. Era quello il cuore del mettersi in moto. Il metodo laboratoriale, o quello semplicemente della bottega, presupponeva una fase di osservazione. Osservo come fanno gli altri, poi sperimento, poi correggo e rielaboro e infine cambio, davvero.

Ha ragione, il prof. Giusto, vale la pena discuterne.