Oggi ho ripreso fra le mani un vecchio libro di Einaudi. Il saggio n. 553, dedicato a Quattro film di Federico Fellini.
E’ uno strano libro perché contiene quattro sceneggiature di altrettanti film del grande visionario di Rimini: I vitelloni, La dolce vita, Otto e mezzo e Giulietta degli spiriti.
Circa trentamila lire, di allora, spese per avere la trascrizione di un mondo. A cosa serviva, mi chiedo, comprare un libro così? Un libro che riporta su carta ciò che Fellini aveva già corredato di splendide immagini, di meravigliosi attori, spettacolari scenografie e musiche meravigliose?
A scuola non capita quasi mai di avere fra le mani una sceneggiatura di una pellicola; succede di vedere magari qualche film con gli studenti (con una risoluzione pessima e un audio incerto) ma molto raramente i ragazzi hanno l’opportunità di comprendere a fondo che dietro un film c’è prima di tutto un’opera letteraria: una visione compiuta, nata dalla punta di una penna o di una matita.
Racconti, insomma; storie che non si accontentano delle lettere, ma pretendono, attori, attrezzisti, scenografi, luci, costumi, microfoni, musicisti, truccatori, sarti, tecnici, registi… quanta fatica per far brillare una storia sullo schermo, e poi quando quando quella storia hai finito per amarla davvero, ti capita di comprare persino la sceneggiatura. Lì, trovi con sorpresa una bella introduzione di Italo Calvino e cose che non corrispondono esattamente al film che avevi visto…
Perché le storie camminano un po’ per conto loro e delle volte, certi personaggi non rispettano nemmeno il brogliaccio del regista.
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Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra, diciamo, il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà di un mondo, la pienezza, la coerenza, mentre fuori dello schermo s’ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma. Il cinema come evasione, si è detto tante volte, con una formula che vuol essere di condanna, e certo a me allora il cinema serviva a quello, a soddisfare un bisogno di spaesamento, di proiezione della mia attenzione in uno spazio diverso, un bisogno che credo corrisponda a una funzione primaria dell’inserimento nel mondo, una tappa indispensabile d’ogni formazione. Certo per crearsi uno spazio diverso ci sono anche altri modi, più sostanziosi e personali: il cinema era il modo più facile e a portata di mano, ma anche quello che istantaneamente mi portava più lontano. Ogni giorno, facendo il giro della via principale della mia piccola città, non avevo occhi che per i cinema, tre di prima visione che cambiavano programma ogni lunedì e ogni giovedì, e un paio di stambugi che davano film più vecchi o scadenti, con rotazione di tre alla settimana. Già sapevo in precedenza quale film davano in ogni sala, ma il mio occhio cercava i cartelloni piazzati da una parte, dove s’annunciava i film del prossimo programma, perché là era la sorpresa, la promessa, l’aspettativa che m’avrebbe accompagnato nei giorni seguenti.
Andavo al cinema al pomeriggio, scappando di casa di nascosto, o con la scusa d’andare a studiare da qualche compagno, perché nei mesi di scuola i miei genitori mi lasciavano poca libertà. La prova della vera passione era la spinta a ficcarmi dentro un cinema appena apriva, alle due. Assistere alla prima proiezione aveva vari vantaggi: la sala semivuota, come fosse tutta per me, che mi permetteva di sdraiarmi al centro dei «terzi posti» colle gambe allungate sulla spalliera davanti; la speranza di rincasare senza che si fossero accorti della mia fuga, per poi avere il permesso di uscire di nuovo (e magari vedi un altro film); un leggero stordimento per il resto pomeriggio, dannoso per lo studio, ma favorevole alle fantasticherie. E oltre a queste ragioni tutte a vario titolo inconfessabili, una ce n’era di più seria: entrare all’ora dell’apertura mi garantiva la rara fortuna di vedere il film dal principio, e non da un momento qualsiasi verso la metà o la fine come mi capitava di solito quando raggiungevo il cinema a metà pomeriggio o verso sera.
Italo Calvino da Autobiografia di uno spettatore, introduzione a Quattro Film di Federico Fellini, Torino, Einaudi, 1969.
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(uno di questi film di Federico Fellini I vitelloni, La dolce vita, Giulietta degli spiriti)
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