Sandro Onofri è un autore romano, scomparso all’età di 44 anni.
Ho amato moltissimo un suo libro edito postumo (2000) da Giulio Einaudi Editori, Registro di Classe. E’ stato per me un volume straordinario che mi ha accompagnato nei miei primi anni di insegnamento: uno sguardo discreto, quanto potente per usare le sue parole.
Nel 2002 è uscito Cose che succedono, una raccolta di racconti. Di questi racconti il primo credo possa fare al caso nostro. Il titolo è Quei ragazzi in silenzio come in un grande Blob. E’ un racconto breve. Avevo pensato di scannerizzarlo ed allegarlo alla pagina. poi mi sono detto che avrei potuto fare meglio, cioè dimostrare ai miei studenti il valore della copiatura.
Spesso, infatti, i miei allievi mi chiedono:
-Prof., ma perché dobbiamo copiare gli esercizi di grammatica sul quaderno? Li possiamo fare sul libro, no!
Ecco, questa pagina, copiata dal sottoscritto parola per parola, di questi tempi e con questo testo, mi sembra la risposta più efficace a quella domanda ripetuta.
COPIO:
“Un tempo consideravo la lentezza come un difetto da eliminare, quasi una malattia da curare. Quando sulle pagelle dei miei compagni, o anche sulla mia, in materie come Calcolo algebrico o Tecnica commerciale, vedevo scritta la frase “lenti nell’apprendere”, provavo una specie di brivido d’impotenza, il segno di una condanna soprannaturale alla stupidità. Più tardi, quando sono diventato a mia volta un insegnante e ho potuto rispecchiare il mio nel processo di apprendimento di certi alunni, ho avuto motivo di rivalutare e riconsiderare anche la gravità dei miei ritardi di scolaro. Perché non c’è dubbio che la maggior parte degli alunni ritardatari, quando arrivano alla comprensione di un concetto o di un contenuto, lo fanno loro profondamente. E anzi, mi sono reso conto che il loro ritardo è causato proprio da un istintivo rifiuto di una forma superficiale di comprensione.
Mi è rimasto, però, ugualmente dentro qualcosa di incompiuto, che sentivo bisogno di chiarire. Non ho mancato di leggere tutto ciò che mi capitava fra le mani riguardo al “tardare” e al “trattenersi” come forma diversa di conoscenza; a cominciare dalle pagine sui giardini di Adone nel Fedro di Platone, fino a La scoperta della lentezza di Sten Nadolny e al Saggio sulla stanchezza di Peter Handke. Eppure, anche dopo quelle letture, è rimasto un qualcosa di non chiarito, e il “fare tardi”, l’allungare il tempo” ha continuato per molto tempo ad assumere una connotazione di non centralità, di perdita.
Sarà perché vengo da una famiglia di artigiani, ma sono stato educato a considerare le pause non semplicemente come una convenienza e un lusso, ma come una necessità. Un imperativo imposto da mio padre nel metodo di rilegatura dei libri è la pausa dopo ogni fase di lavorazione: “Interrompi, accenditi una sigaretta, fai quello che vuoi, ma fermati a guardare quello che hai fatto. Devi solo guardare. È il libro che ti dice quello che va e quello che non va. Se non ti fermi, non te ne accorgi”.
Qualche tempo addietro ho letto su “l’Unità” un’intervista a Mario Soldati riguardo all’emergenza causata dalla carenze di sigarette dell’ultimo periodo. Soldato, fumatore incallito che fra un sigaro e l’altro è arrivato all’età di ottantatré anni alla faccia di tutti gli iettatori antifumo, diceva che il sigaro è per lui indispensabile per scrivere. Perché il sigaro inevitabilmente si spegne, ed è proprio in quella pausa in cui si cercano i cerini sul tavolo, nascosti magari sotto chissà quale pila di fogli, è in quella perdita di tempo che nasce l’idea. E di questo sono convinto anch’io. Gli stimoli nascono nei silenzi, nelle interruzioni, in quelle pause che la vita si prende fra un fatto e la sua continuazione.Il fascino che ha su di me la lentezza è legato ad un’immagine precisa. Quando ero ragazzino c’era il suono di una sirena che, a mezzogiorno e mezzo in punto, annunciava la sosta per il pranzo nella fabbrica vicino a casa mia. Il rumore delle macchine s’interrompeva e gli operai cominciavano ad uscire a piccoli gruppi sul piazzale davanti alla fabbrica, disordinatamente. Si sedevano sugli scalini, tiravano fuori dal giubbotto le pagnottelle, e se ne stavano lì, a godersi il silenzio e il sole, a scambiarsi qualche parola col compagno più vicino, se gli andava, e in caso contrario stando zitti. Lenta era quell’immagine di popolo, di palpebre pesanti, con i suoi colori precisi, il blu delle tute da lavoro, il piano delle strisce che delimitavano lo spazio di scarico dei camion, il giallo acceso delle pedane di legno sempre bagnate e dei metri pieghevoli che uscivano dai taschini delle giacche, e il rosso di un pallone che rimbalzava qua e là sul piazzale. Radunati a contemplare la comune voglia di stare fermi e di allungare il tempo, quegli uomini vivevano una sospensione, una situazione di attesa aperta a tutto, che costringeva alla tolleranza.
Ma non ho mai preso coscienza dei pregi della lentezza e del ritardo finché non mi è saltata agli occhi la criminale superficialità dei mucchi di puntuali solleciti che invece riempiono adesso i nostri luoghi. Tutti vogliosi di fatti, di certezze pronte e immediate.
Ci sono dei ragazzi che incontro ogni mattina alla fermata della metropolitana. Salgono all’ Eur con me e scendono quasi tutti a via Cavour. Stanno insieme, ma è come se fossero ognuno per conto suo. Impalati per tutto il tempo nella stessa posizione, con le cuffiette del walk-man infilate in testa. Sembra che non si accorgano della folla che li urta, li struscia, li aggira, li scavalca. Sono soli, in una calca di ombre che neanche vedono. Restano così, imbambolati nel cicaleccio martellante che rimbalza nelle loro orecchie e arriva fino a me, senza sosta. Io l’ho capita la legge che regola il tipo di trasmissioni che sentono quei ragazzi. E’ la legge che mi viene di chiamare della paura del silenzio. Qualsiasi radio o televisione tende ormai ad azzerare i momenti di silenzio e le pause. Non importa quello che si dice, l’importante è che si dica qualcosa.
Mi è capitato di scambiare qualche parola, di tanto in tanto, con qualcuno di questi ragazzi. E’ difficile che si svelino, perché marciano dentro le giornate con la determinazione di un battaglione di marines. Le poche volte che sono riuscito a farli parlare, mi hanno esposto la loro vita con quattro frasi. Parlano convinti, e io resto ogni volta sbalordito a vedere con quanta precisione abbiano programmato la propria esistenza. Hanno sistemato tutto, senza tralasciare il minimo particolare. Un programma senza buchi, ogni poi legato ad un altro poi, come la trasmissione che gli scornacchia nelle orecchie ogni mattina. Una chiarezze di idee che non concepisce nuvole. Un chiarore accecante. E a dare un valore definitico al loro discorso ci sono i muri quadrati delle fronti, posati sui marciapiedi belli robusti delle sopracciglia che nascondono gli occhi lontani e sempre fermi, tutti uguali. “Nella vita contano solo i fatti, signore. Solo i fatti, e tutto il resto è inutile”. E a questa affermazione, gli scorgo un lampo di soddisfatta rabbia nello sguardo.
Non li ho mai sentiti criticare un professore. Si lamentano, sì, delle strutture scolastiche dell’inutilità di certe materie (la Storia soprattutto), della severità di questo o quel docente, ma mai (proprio mai!) di qualcosa che presupponga uno scambio di sapere con l’insegnante, qualcosa che tradisca in loro anche la più piccola fiammella del sacro fuoco di un entusiasmo giovanile, di un innamoramento intellettuale. O di una stanchezza, della voglia sana di non fare niente. Il rapporto con i docenti è di semplice utenza: i professori fanno le lezioni e loro le seguono, tutto qui, senza nessun altro tipo di coinvolgimento. Questa è la loro vita, come eternamente davanti a uno schermo, a seguire un Blob gigantesco di dati, di notizie e di suoni. E come un Blob quei ragazzi hanno anche organizzato la settimana; avvicendando lo studio con il tennis, con le lezioni di pianoforte e, a giorni alterni, con gli hobby preferiti, questo il sofisticatissimo computer, quello l’impianto da radioamatore, l’altro semplicemente la televisione. Tutta la loro vita è così scandita e veloce, di una puntualità quasi autistica, in cui ogni buco, ogni spazio all’inattività è coperto dal cemento iniettato dalle cuffiette della radio, o col muoversi agitato e gli urli di qualche trasmissione televisiva.
Ho deciso che racconterò a quei ragazzi la prima volta che riuscirò a distoglierne qualcuno dal loro disc-jockey, la favola della lumachina bianca che attraversa un cortile, lentamente fermandosi ogni tanto come ad annusare l’aria. Durante la traversata lunghissima, il tempo cambia, dopo la pioggia scrosciante viene il sole, poi un vento polveroso. A ogni cambiamento di tempo la lumachina si ferma, come per assorbire gli elementi naturali e impregnarsi di ciò che la natura le manda: prima prende l’acqua, poi il calore, infine si lascia sballottare dalla polvere e scorticare dalle foglie secche. Quando arriva dall’altra parte del cortile, gravida di tutto il bene e di tutto il male che ha incontrato nel suo tragitto, non è più la lumachina candida che era partita, ma un essere rugoso e pieno di segni, della bruttezza bella che regala l’aver conosciuto.
E’ una favoletta così, inventata da me, forse poco efficace, che sicuramente provocherà in loro una reazione di superiore disprezzo. Ma se non gliel’ho ancora raccontata, è solo perché sono indeciso sul finale. Non so se la lumachina deve partorire un’altra lumaca o uno scarafaggio dalla corazza nera, imperturbabile ad ogni cambiamento, che si agita veloce e frettoloso sui percorsi sicuri, invisibile, e protetto dall’ombra di un immenso canyon.
Come il Maestro non conosco il finale della nostra storia, ma a questo punto non mi sembra particolarmente importante…
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