Eduardo e il deserto dell’attesa.

una rilettura dispari di Francesco Gallo

La dimensione dell’attesa è una costante del teatro e della narrazione in generale. Non esiste, almeno a parere di chi scrive, la possibilità di misurarsi con il dramma, l’azione, sia in senso stretto che in senso lato, senza considerare il ruolo giocato dall’attesa. 

Persino nelle sperimentazioni più spinte del teatro novecentesco l’attesa occupa un posto centrale, sia pure quando si colloca in un universo parallelo, destinato a non incrociare mai il mondo dei personaggi che si muovono in scena più o meno consapevolmente. Se volessimo indicare nell’intero appena evocato le stelle di riferimento potremmo certamente segnare con il dito Aspettando Godot o Finale di Partita di Samuel Beckett.

Non è però l’autore irlandese il fuoco del mio piccolo sguardo, anche se forse rappresenta il punto su cui si può far leva per sollevare il mondo eduardiano oltre le apparenze ingannevoli di un teatro prima marchiato con il dialetto, poi con il realismo. Come se nel dialetto e nel realismo, per essere più precisi il neorealismo, non potesse celarsi una dimensione altra, dimenticando, Ipse dixit, che a la suprema verità è sempre stata e sarà sempre la suprema finzione.

Napoli Milionaria, scritta in pochi giorni, tutta d’un fiato,  andata in scena il 25 marzo 1945 al Teatro San Carlo di Napoli, alle ore 16,30, mentre tutti i teatri erano requisiti, rappresenta, per diverse ragioni, una svolta nel teatro di Eduardo De Filippo. La prima ragione, banalmente, dipende dal fatto che il drammaturgo napoletano si presenta al pubblico con una nuova compagnia: non più quella Umoristica dei De Filippo, ma quella direttamente riconducibile a lui: “Il Teatro di Eduardo, con Titina De Filippo”. Una novità che tagliava definitivamente i ponti con la ricerca di ruoli ed espedienti comici incarnati dal fratello Peppino. Il secondo motivo di questo cambiamento è dato dal periodo storico, segnato dalla II Guerra Mondiale che, dopo aver lungamente imperversato in Europa, portando miseria, morte e distruzione, volgeva al termine, chiudendo per sempre un’epoca, imponendo una riflessione su ciò che era accaduto e un nuovo linguaggio anche alle arti sceniche. A questo proposito non possiamo non dare conto di una felice sintesi di Anna Barsotti che avverte quella tensione al riscatto, implicitamente ricostruttiva, che accomuna le opere teatrali dei nostri autori del secondo dopoguerra. Il terzo motivo di rinnovamento è espressione dello stesso Eduardo, che alla prima romana dello spettacolo, Salone Margherita, il 31 marzo 1945, si affacciò alla ribalta per dire che non avrebbe più fatto, semplicemente, del teatro da ridere. Ogni anno di guerra ha contato come un secolo nella nostra vita di prima. Davvero non è più il caso di tornare a quelle vecchie storie. La Commedia di stasera ha un primo atto che si riallaccia a quel genere: le conseguenze della guerra viste attraverso la lente della farsa. Ma dopo statevi attenti, è il dopo che importa.

E’ proprio questa terza capriola che genera la meraviglia di questo piccolo appunto. Eduardo, dopo il silenzio della prima napoletana, che ricorda infinitamente lungo, otto dieci secondi che precedettero gli applausi furiosi ed il pianto irrefrenabili, si ritrova a scrivere in un vero e proprio deserto. Il deserto dell’attesa. La drammaturgia dei giorni dispari, che inizia con il secondo atto di Napoli Milionaria, si genera fra la morte simulata del comico (scena in cui Gennaro Jovine si finge deceduto per sfuggire ai controlli della Polizia) e il ritorno del finto morto dalla II Guerra Mondiale, mentre il protagonista maschile del dramma riprende posto al suo tavolo, questa volta quello di scrittore, in attesa di giorni più creativi e certamente meno rassicuranti.

Cosa è accaduto in quel tempo sospeso in cui Gennaro Jovine viene creduto morto? Cosa si nasconde dietro il suo inatteso ritorno? Si può evitare la catastrofe nei giorni dispari

Se le domande sembrano chiare, le risposte saranno più vaghe e incerte, come si pretende da ogni ricostruzione che non può essere definitiva.

Partiamo proprio dal batticuore di casa Iovine, il disagio e la difficoltà di traffico a cui è sottoposta la famiglia che vive dint’o Vascio ‘e donn’Amalia Jovine. E’ in questo spazio diviso, sezionato, una vera e propria prefigurazione della trincea che i personaggi, tutti quelli che vivono sulla scena, si incontrano nell’attesa di una giornata buona. Il rito del caffè, venduto a caro prezzo da Donna Amalia, è il perpetrarsi di un mondo ormai scomparso che pure pretende la sua parte. Adelaide, Federico, Errico Settebellizze, Peppe ‘o Cricco e Riccardo Spasiano sono tutti convocati al comizio allo specchio di Don Gennaro, tranviere disoccupato, che s’improvvisa legislatore, come un Ambrogio Fusella qualunque, taglia con il rasoio una verità già divenuta difficile da maneggiare. 

Quello che appare il suo primo monologo è in verità, come spesso accade nel teatro di Eduardo, un soliloquio che crea gelo, isolamento, imbarazzo, incomprensione, tanto da far concludere candidamente a Peppe ‘o Cricco, un mariulo presente in scena, Don Genna’, io nun aggio capito niente.

E’ intorno al fastidio generato dalle parole di Don Gennaro che ognuno attende ai suoi compiti, che ogni personaggio si prepara alla sua imprevedibile giornata. Tutti però, più o meno espressamente, vivono con preoccupazione i giorni del calmiere, i giorni in cui la roba sparisce, aspettano con angoscia la conclusione di una guerra che si ostina a non voler finire. Le idee di Gennaro si confondono, come spesso accade ad Eduardo alle prese con le sue cravatte o i fazzoletti. Alla fine della cerimonia di vestizione il riassunto della tensione drammaturgica che Eduardo vuole creare nel primo atto si può leggere nella battuta che conclude il discorso con Amalia: stammioci accorte, Ama’.

E’ proprio l’arrivo del brigadiere Ciappa, andamento rude e sguardo acuto, che fa precipitare gli eventi costringendo il teatro eduardiano all’ultima finzione farsesca, l’ultimo equilibrismo fra passato e futuro. La caduta sarebbe rovinosa, ma viene risolta in modo sapiente proprio dal brigadiere con una battuta che smorza l’attesa e conclude il numero: “Tu non si’ muorto, ‘o ssaccio. Ne so’ sicuro. Sot’o lietto tiene o controbbando. Ma nun t’arresto. E’ sacrilego a tuccà nu muorto, ma è cchiù sacrilego a mettere ‘e mmane ncuollo a uno vivo comme a te”.

Da quel momento in poi il teatro di Eduardo non sarà più lo stesso: l’attesa non verrà più risolta in un finale univoco, se si fa eccezione per le lacrime di Filumena Marturano che sciolgono in pianto il dramma scritto per la sorella Titina. 

Torniamo a Gennario Jovine e alla sua assenza. Il secondo atto di Napoli Milionaria si apre con una scena rinnovata. Gli Alleati sono sbarcati e a Napoli, le preoccupazioni sembrano essere sparite, si respira un’aria di rinnovata speranza. L’attesa angosciosa pare aver lasciato posto alla gioia e alla prosperità. E’ in questa cornice che riappare il fantasma di Don Gennaro, ormai archiviato da Settebellizze e dalle sue lucenti promesse. E’ lui il fantasma prima dei Fantasmi, lui il precursore del deserto che disturberà per oltre trent’anni l’idolatria del progresso a buon mercato. Un uomo smarrito, privo d’identità, con il berretto italiano, il pantalone americano, la giacca a vento dei soldati tedeschi, incapace persino di riconoscere la sciccheria della propria moglie e della propria casa; celebre la battuta di scuse proferita varcando la soglia del suo Vascio, completamente rinnovato dai milioni di Donn’Amalia: “Perdonate Signora”.

Nel tempo sospeso ripercorso da Gennaro nel suo tragico racconto,  e ripreso poi dal Giovanni in “Non ammazzare”, uno dei Dieci Comandamenti di Raffaele Viviani, vi è un’esperienza ben lontana dalla formazione.  Sia in Eduardo che in Viviani non sono presenti coloriture eroiche, non registriamo pretese epiche, narrazioni di comodo. Ciononostante quel poco di storia di cui Gennaro Jovine è stato smarrito testimone viene allontanata dall’incoraggiamento all’oblio. Nun ce penzate, si affrettano a dire i convitati al pranzo delle bellezze. Ormai è fernuto. E’ questo il segno più concreto del deserto portato in dote da Gennaro, simbolo di una guerra che si vuole dimenticare al più presto. Ancora una volta il protagonista è confinato in un luogo a parte, fuori dal presente che pretende di brindare allo scampato pericolo. La cameretta di fortuna che accoglieva le ragioni del tranviere relegato all’inconsistenza è ormai inutile, non ha più ragione d’esistere nel mondo che sembra aver trovato nei milioni il suo unico motivo di vita.

L’abisso è spalancato. Al protagonista del dramma eduardiano non resta altro da fare che ritirarsi, rivolgere le sue attenzioni a Rituccia, che tene ‘a freva forte. E’ proprio la febbre del futuro ad angustiare Don Gennaro. L’attesa di quello che può ancora accadere è straziante: mentre si inscena una rassicurante quotidianità, come accade sul balcone di Pasquale Lojacono, la disumanità, la miseria umana, la meschinità della bugia, la malattia e la morte bussano nuovamente alla porta della famiglia Jovine. Rituccia, la bambina di casa, si aggrava. Gennaro assiste ammutolito, come già aveva fatto Alberto Stigliano in Mia Famiglia, al disfacimento del proprio nucleo familiare:  Maria Rosaria è incinta di un soldato americano, ormai ripartito; Amedeo sta per essere arrestato dal Brigadiere Ciappa che, scrupolosamente, avverte il padre; Amalia, evidentemente, l’ha tradito ed è davvero poco importante sapere se si è trattato del tradimento di una moglie o di una compagna che ha guardato altrove, come era già successo alla Nannina di Viviani, l’altro grande drammaturgo napoletano che la sera della prima napoletana di Napoli Milionaria corse ad abbracciarlo a fine spettacolo.

Il baratro percepito sino a quel momento dal solo Don Gennaro, e intravisto dal Brigadiere Ciappa, è adesso aperto davanti a tutti, profondo, pericoloso, infido. La corsa alla medicina per salvare Rituccia coinvolge tutti, ma le armi degli uomini sono spuntate e il farmaco non è facile da trovare. La catastrofe è ormai a portata di mano, gli eroi mancano, sono tramontati per sempre. Tuttavia qualcuno crede ancora nella possibilità di cambiare strada. Amedeo non si reca all’appuntamento che l’avrebbe portato in galera e a casa Jovine si presenta una vecchia conoscenza di Amalia, Riccardo Spasiano, impiegato spogliato di tutti i suoi beni dal prezzo disumano della borsa nera imposta con ferocia da Donna Amalia. Le parole del ragioniere sono la speranza a cui aggrapparsi per evitare il baratro della tragedia.

RICCARDO Come vedete, chi prima e chi dopo deve, ad un certo punto, bussare alla porta dell’altro. Sì, lo so, voi in questo momento mi dareste tutto quello che voglio… Donn’Ama’, ma se io per esempio me vulesse leva’ ‘o sfizio ‘e ve vede’ ‘e correre pe tutta Napule comme currevo io, pe truva’ nu poco ‘e semolino, quanno tenevo ‘o cchiù piccerillo malato… Se io ve dicesse : «Girate donn’Ama’, divertiteve purtone pe’ purtone, casa per casa…» Ma io chesto nun ‘o ffaccio! Ho voluto solamente farvi capire che, ad un certo punto, se non ci stendiamo una mano l’uno con l’altro… (Porgendo la scatola al dottore) A voi, dotto’. E speriamo che donn’Amalia abbia capito. Auguri per la bambina. Buonanotte. (Ed esce per il fondo). 

Speranza, dicevo. Il dottore, infatti corre a somministrare la medicina, affidandosi al mattino che dovrà arrivare. E’ sì un’attesa fiduciosa, ma del tutto diversa da quella spensierata vissuta al compleanno di Settebellizze. Si tratta di una speranza che non ha nulla a che spartire con il positivismo e le sue storie; una speranza che sospende il male, gettando l’umanità nella dimensione temibile dell’incognito.

Sul piano tecnico, scrive Anna Barsotti, evita la catarsi tragica, i lavacri spirituali e riconciliatori citati polemicamente da Brecht.

E’ così che la pièce si avvia a conclusione, una conclusione provvisoria, come queste poche pagine, che commentano un testo ancora capace di commuovere, una scrittura che riprende vita ad ogni mia difficoltà.

Il protagonista è pronto alla tirata finale, un discorso che non approda a null’altro che alla frantumazione a cui è stato costretto ad assistere, negli occhi le macerie lasciate da una guerra assurda, dove i morti non si contano e le divise non sono sufficienti a creare differenze: ‘E muorte so’ tutte eguale.

GENNARO (chiude il telaio a vetri e lentamente si avvicina alla donna. Non sa di dove cominciare; guarda la camera della bimba ammalata e si decide) Ama’, nun saccio pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penza’ ‘o paese nuosto. 

L’inizio del monologo crea immediatamente un parallelismo fra la malattia di Rituccia e quella del paese. Eduardo scrive il sostantivo paese con la lettera minuscola, ma noi avvertiamo nella piccola storia particolare di una bambina, che fra le altre cose non appare mai in scena, la condizione generale di un Paese devastato dalla Guerra Mondiale. Solo la grande letteratura è capace di tracciare linee così piccole e straordinariamente efficaci da comporre quadri d’insieme.

GENNARO Io so’ turnato e me credevo ‘e truva’ ‘a famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente. Ma pecché?… pecché io turnavo d’ ‘a guerra… Invece, ccà nisciuno ne vo’ sentere parla’. Quann’io turnaie ‘a ll’ata guerra, chi me chiammava ‘a ccà, chi me chiammava ‘a llà. Pe’ sape’, pe’ sentere ‘e fattarielle, gli atti eroici… Tant’è vero ca, quann’io nun tenevo cchiù che dicere, me ricordo ca, pe’ m’ ‘e lleva’ ‘a tuorno, dicevo buscìe, cuntavo pure cose ca nun erano succiese, o ca erano succiese all’ati surdate… pecché era troppa ‘a folla, ‘a gente ca vuleva sèntere… ‘e guagliune… (Rivivendo le scene di entusiasmo di allora) ‘O surdato! ‘Assance sèntere, conta! Fatelo bere! Il soldato italiano! Ma mo pecché nun ne vonno sèntere parla’? 

La seconda parte dell’enunciato è quella della rimozione del dolore. Non serve in questo contesto scomodare Freud e le dinamiche psichiche studiate dal padre della psicanalisi per comprendere gli accadimenti, basta ricordare la battuta di Amalia che precede questo monologo, per spiegare meglio di qualunque trattato la lotta per la sopravvivenza, scatenata dal Conflitto Mondiale, Aggio fatto chello che hanno fatto ll’ate. Me so’ difesa, me so’ aiutata. Chiarita la strategia di sopravvivenza, si potrebbe andare in cerca di colpevoli.

GENNARO Primma ‘e tutto pecché nun è colpa toia, ‘a guerra nun l’he’ vuluta tu, e po’ pecché ‘e ccarte ‘e mille lire fanno perdere ‘a capa… (Comprensivo) Tu ll’he’ accuminciate a vede’ a poco ‘a vota, po’ cchiù assale, po’ cientomila, po’ nu milione… E nun he’ capito niente cchiù… (Apre un tiretto del comò e prende due, tre pacchi di biglietti da mille di occupazione. Li mostra ad Amalia) Guarda ccà. A te t’hanno fatto impressione pecché ll’he’ viste a ppoco ‘a vota e nun he’ avuto ‘o riempo ‘e capi’ chello ca capisco io ca so’ turnato e ll’aggio viste tutte nzieme… A me, vedenno tutta sta quantità ‘e carte ‘e mille lire me pare nu scherzo, me pare na pazzia… (Ora alla rinfusa fa scivolare i biglietti di banca sul tavolo sotto gli occhi della moglie) Tiene mente, Ama’: io ‘e ttocco e nun me sbatte ‘o core… E ‘o core ha da sbattere quanno se toccano ‘e ccarte ‘e mille lire… 

E’ forse questa la parte più visionaria del discorso pronunciato da Gennaro Jovine. Una visione preceduta dalla rinuncia ad attribuire colpe, qui accennata e ripresa nel passaggio successivo. Il logos smaschera l’illusorietà di una promessa che rischia di trasformarsi in una trappola, ma non si tratta più di un discorso che può permettersi il lusso del giudizio, come nel monologo del calmiere.

GENNARO (Pausa) Che t’aggi’ ‘a di’? Si stevo cca, forse perdevo ‘a capa pur’io… A mia figlia, ca aieressera, vicino ‘o lietto d’ ‘a sora, me cunfessaie tutte cosa, che aggi’ ‘a fa’? ‘A piglio pe’ nu vraccio, ‘a metto mmiez’ ‘a strada e le dico: – Va fa’ ‘a prostituta? – E quanta pate n’avesser’ ‘a caccia ‘e figlie? E no sulo a Napule. Ma dint’ ‘a tutte ‘e paise d’ ‘o munno. A te ca nun he’ saputo fa’ ‘a mamma, che faccio, Ama’, t’accido? Faccio ‘a tragedia? (Sempre più commosso, saggio) E nun abbasta ‘a tragedia ca sta scialanno pe’ tutt’ ‘o munno, nun abbasta ‘o llutto ca purtammo nfaccia tutte quante… E Amedeo? Amedeo che va facenno ‘o mariuolo? 

Amalia trasale, fissa gli occhi nel vuoto. Le parole di Gennaro si trasformano in immagini che si sovrappongono una dopo l’altra sul volto di lei. Gennaro insiste. 

Amedeo fa ‘o mariuolo. Figlieto arrobba. E… forse sulo a isso nun ce aggia penza’, pecché ce sta chi ce penza… (Il crollo totale di Amalia non gli sfugge, ne ha pietà) Tu mo he’ capito. 

Gennaro non si dichiara migliore degli altri, probabilmente avrebbe sposato la logica del si salvi chi può, gli stessi errori se non fosse stato catapultato nel mezzo del conflitto, mmiez’ a na campagna, annascunnute dint’ ‘a nu fuosso, pecché attuorno cadevano granate e cannunate. Ha compreso e fatto comprendere ad Amalia ‘a tragedia ca sta scialanno pe’ tutt’ ‘o munno, […] ‘o llutto ca purtammo nfaccia tutte quante…

GENNARO E io aggio capito che aggi’ ‘a sta’ ccà. Cchiù ‘a famiglia se sta perdenno e cchiu ‘o pate ‘e famiglia ha da piglia’ ‘a responsabilità. (Ora il suo pensiero corre verso la pìccola inferma). E se ognuno putesse guarda’ ‘a dint’ ‘a chella porta… (mostra la prima a sinistra) ogneduno se passaria ‘a mano p’ ‘a cuscienza… Mo avim-m’aspetta’, Ama’… S’ha da aspetta’. Comme ha ditto ‘o dottore? Deve passare la nottata. (E lentamente si avvia verso il fondo per riaprire il telaio a vetri come per rinnovare l’aria). 

[…]

Maria Rosaria ha riscaldato il caffè e ora porge la tazzina al padre. Gennaro la guarda teneramente. Avverte negli occhi della fanciulla il desiderio d’un bacio di perdono, così come per Amedeo. Non esita. L’avvince a sé e le sfiora la fronte. Maria Rosaria si sente come liberata e, commossa, esce per la prima a sinistra. Gennaro fa l’atto di bere il suo caffè, ma l’atteggiamento di Amalia stanco e avvilito gli ferma il gesto a metà. Si avvicina alla donna e, con trasporto di solidarietà, affettuoso, sincero, le dice: 

GENNARO Teh… Pigliate nu surzo ‘e cafè… (Le offre la tazzina). 

Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: «Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?» Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza. 

GENNARO S’ha da aspetta’, Ama’. Ha da passa’ ‘a nuttata. (E dicendo questa ultima battuta, riprende posto accanto al tavolo come in attesa, ma fiduciosa). 

Qui, più che in Mia famiglia, dove la vicenda prende forma sui rapporti di coppia e analizza le dinamiche di una famiglia borghese, sembra l’autore a parlare, il drammaturgo a rivendicare il suo posto nella ricostruzione, il ruolo che può avere l’arte, la letteratura, il teatro. Le parole pronunciate, tuttavia, non hanno nessuna retorica del definitivo, non forniscono risposte rassicuranti, non pretendono risarcimenti, né impongono una morale di massima. Gennaro Jovine, resta un uomo mite, incapace di soluzioni. Ha però sviluppato una piena consapevolezza; ha imparato a sopportare i patimenti, le rinunce imposte dal tempo. E’ il tempo il signore vero di questa straordinaria scrittura di scena. E’ lui che scandisce la vicenda, scardinando l’identità, mettendo fuori gioco l’ambizione, rimarcando la perdita. Nella Napoli milionaria di Eduardo la morte è così vicina da esaltare la vita. L’arte non è altro che la capacità di stare in prossimità dell’essere, tenersi più stretti possibili a ciò che è. 

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