Buona condotta del 11 ottobre 2018.

Le ore dopo il Collegio dei Docenti sono le peggiori della mia professione.

Ciò che capita di chiedermi sovente, dopo una riunione affollata, è se sia possibile misurarsi con la folla (anche piccola) senza il desiderio di dominarla.

Non è una domanda da poco, non rappresenta poco per un insegnante che pure ha la sua piccola platea, per un attore, per un Dirigente Scolastico, o per un Ministro.

La democrazia e la persuasione sono parenti stretti, sorvegliati dalla retorica.

Per un attore convincere il suo pubblico è indispensabile: la vita stessa della sua interpretazione si nutre della certezza di una verità presunta.

O convinci il pubblico o sarai fischiato.

Più complesso è il mestiere dell’insegnate. La platea è occupata da spettatori meno eterogenei e più compositi. Non è necessario convincerli della bontà delle tue parole. La lezione, a differenza dello spettacolo, non vive della pratica certezza, ma del dubbio metodico. Persuaderli sarebbe impossibile, devi inchiodarli ad un mondo che non ha nulla in comune con il loro. Forse, fra dieci anni, decideranno di pagare il biglietto e fischiare.

Di spettacoli brutti ne ho visti tanti, le mie lezioni pietose non si contano, ma lo sconforto indossa la maglia del capitano.

Un Presidente, un Dirigente, un Ministro, dovrebbero evitare di coltivare la retorica della persuasione. L’autorevolezza non ha bisogno di convincere nessuno. Le platee a cui parlano i capi sono riempite da adulti, cittadini, uomini e donne che hanno raggiunto (o avrebbero dovuto raggiungere) piena autonomia.  Il compito di chi governa è simile a quello del filosofo (spesso citato a sproposito): tafano indesiderato della riflessione, cibo indigesto della certezza. 

Chi parla non coltivando il dubbio può essere, al limite, un superiore, non un modello.

Troppo poco tempo.

Mi astengo, come Giulia.

_______________________________________________

Infatti se mi condannate, non troverete facilmente un altro che – sia pur detto in modo ridicolo – venga assegnato dal dio alla città come a un cavallo grande e nobile, ma pigro a causa della sua grandezza e bisognoso di essere svegliato da un qualche tafano. Perché mi sembra che il dio mi abbia posto sulla città con questa funzione: non smettere di stare appresso a voi – a ciascuno di voi – tutto il giorno e dovunque per stimolarvi, convincervi e rimproverarvi.[31a] Un altro tipo così, cittadini, non vi rinascerà facilmente: risparmiatemi, se mi date retta. Ma può darsi che voi, che vi irritate in fretta e mi picchiate, come gente che casca dal sonno buttata giù dal letto, diate retta ad Anito e mi condanniate facilmente a morte, per continuare a dormire, a meno che il dio, preoccupato per voi, non vi rimandi qualcun altro.

Apologia di Socrate di Platone

Traduzione dall’originale greco di Maria Chiara Pievatolo.