Siamo sicuri che il teatro sia morto?

Domenica, 25 settembre 2023 al Teatro della Chimera è andato in scena lo spettacolo “ioFilume’” di e con Franco Di Corcia. Mi è sembrata l’occasione migliore per riprendere questo spazio, ormai non abitato da troppo tempo, e riflettere assieme a voi sulle parole che Franco Di Corcia ci ha consegnato in questo primo pomeriggio autunnale. 

Si tratta di un monologo ospitato nella rassegna ImPollino 2023, rassegna che oltre a fregiarsi del riconoscimento del Ministero dei Beni Culturali vanta la direzione artistica di Fabio Pellicori, la professionalità di Carla Monaco, come direttrice organizzativa del Festival, e la direzione tecnica di Luca Oliveto. La produzione dello spettacolo è firmata dal Teatro di Bo’ e vede la presenza, oltre dell’autore ed interprete del testo, anche di Mattia Pagni, che esegue musiche dal vivo e dell’assistenza alla messa in scena di Michelangelo Ricci. Il pubblico è accolto in sala a sipario aperto e con il protagonista già presente in scena. La presenza di Franco Di Corcia, già al primo sguardo, è segno prepotente del teatro. Non posso fare a meno di pensare ad Enzo Moscato in Compleanno, meraviglioso lavoro che il Maestro volle dedicare all’amico Annibale Ruccello. I gesti convulsi del protagonista e la litania, che poi sarà la felice soluzione del finale, evocano sin da principio il ritmo, il dolore e la pulsione di morte che presiedono al teatro. Assieme all’attore si presentano quasi da principio le parole di Filumena Marturano, che per tutta la durata del testo saranno piegate ad una originale riscrittura drammaturgica. L’autore e interprete del testo non si contenta di ingaggiare una sfida con Eduardo, ma apre un contenzioso con il pubblico, prima inscenando una fuga, poi trasformando di volta in volta singoli spettatori in Domenico Soriano, ed infine costringendoci in piedi in una estemporanea riunione laboratoriale. I rischi che Franco Di Corcia decide di correre sono forse maggiori del coraggio stesso che occorre per vincere una scommessa del genere, più mirabili della scelta stessa della direzione artistica della Chimera. 

Quello che lo spettatore si ritrova ad osservare e sentire non è null’altro che una storia divisa a metà dove la nota vicenda affidata a Titina De Filippo si iscrive perfettamente nella vita dell’autore e del protagonista. L’indifferenza, i pregiudizi, l’ostinata ricerca della felicità del personaggio eduardiano fanno eco alla vita di un uomo che racconta il proprio amore per l’arte teatrale. Le intermittenze del cuore sono offerte al pubblico come l’energia elettrica che va e viene nella casa del Franco resistente. Il coro delle rane, che gracida la rinuncia di Filumena ai suoi propositi di matrimonio, è sovrastato dal richiamo della vocazione, che, come la fenice, rinasce ogni volta dalle proprie ceneri. Mattia Pagni sottolinea al pianoforte i cambi di prospettiva, offrendosi da spalla alla narrazione, che in molte circostanze presta il fianco all’inciampo metateatrale. Lo spettacolo potrebbe terminare con l’epifania della luce che porta Franco/Filumena a muoversi a ritmo del tamburo, ma la misura stretta della drammaturgia non è il codice di questa rilettura: la rincorsa fra arte e vita costringe ad un altro viaggio. La sensazione, all’inizio, è quella di un’appendice non indispensabile, ma la valigia dell’attore riserva ancora qualche sorpresa e l’urgenza del racconto finisce per spiazzare nuovamente lo spettatore. La morte annunciata di Filumena è cambiata con le lacrime della speranza: la stessa che capita di vivere agli spettatori quando si trovano di fronte ad un lavoro autentico, ad un luogo che resiste per raccontare storie.

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Foto di Carlo Maradei