Il sabato del villaggio del 29 febbraio 2020.

Una donna che stimo molto nei giorni scorsi ha scritto che forse dovremmo smettere di parlare di argomenti imposti dalla televisione e dai social media. 

Ha certamente ragione lei: la tastiera del cronista non aiuta a comprendere il mondo e tante volte al sottoscritto torna alla mente, come monito, una strofa di Giorgio Gaber che cancella fatalmente ogni presunzione di conoscenza. Mi ritrovo, dopo poche battute del Maestro, assieme a tutti gli imbecilli che amano l’informazione e finisco, io prima e più degli altri, per essere il coglione di turno.

In questi giorni, che ho vissuto con l’orecchio attaccato alla Tv e con gli occhi fissi ai giornali, non rassicurato dalla mia usuale miopia, mi accorgo di quanto male faccia a me, alla mia famiglia e ai miei amici il chiacchiericcio smodato dei talk show. 

Il punto è che probabilmente io e tanti come me non abbiamo ancora compreso pienamente la natura del nostro viaggio nei giorni feriali, non abbiamo inteso il pericolo del calpestio della folla e stentiamo a riconoscere dentro di noi la smania di un’identità ipocrita, singolare ad ogni costo. Quello che più mi disturba del mio parlare di oggi non è tanto l’egoismo dei miei giorni dispari, ma la mancata gioia dei giorni pari. Se c’è un virus che rischia di uccidere per sempre il genere umano non è certamente quello proveniente dalla Cina; si tratta di un germe ben più pericoloso, quello del triste conformismo, un singolare assoluto che intona filastrocche mandate a memoria. Nell’aria mesta di questa settimana si dovrebbe respirare il desiderio di un mondo nuovo, un universo popolato da donne a uomini sinceri e generosi, pronti a farsi carico dei più deboli, a darsi coraggio. 

Tutto quello che abbiamo saputo fare, in questo mese che ci ha regalato persino un giorno, è svuotare i supermercati, dividerci inutilmente, correre a compare l’Amuchina.

Che sia una domenica di gioia!

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