Cantare la pietra
21 Febbraio 2018
Un omaggio al Maestro Cherillo
Non sarà facile tenere la linea in questo scritto che incespica tra cronaca e ricordo. Camminano alla maniera del funambolo, sull’abisso di circa 15 anni, le figure del Maestro Cherillo che sabato scorso erano in mostra alla Galleria D’arte il Coscile. Il pomeriggio organizzato dalla Galleria e dalla Delegazione FAI del Pollino è il giusto riconoscimento ad un artista che, mutuando le parole di Gianluigi Trombetti, ha oltrepassato in più occasioni la linea labile che divide l’arte dall’artigianato. Basterebbe segnalare la presenza di un numerosissimo pubblico, che ha letteralmente invaso lo spazio piccolo, solo in termini di metri quadrati, del prof. Mimmo Sancineto, per mettere fine ad ogni discussione sulla grandezza dell’uomo e dell’artista. A rendere invece giustizia al padre c’erano Roberto ed Angelo: figli d’arte del Maestro. Ritrovare fra il pubblico il viso di Antonio Maffei, suo antico collaboratore, mi basta per ritornare a bottega nel primo anno nel millennio.
Il 2001, quando iniziava la mia breve avventura da libraio, il Maestro aveva un piccolo spazio a qualche passo dalla libreria, al civico 240 di Corso Garibaldi. Il mio incontro con lui era pressoché quotidiano. Conoscevo già Gianni Cherillo, anche se non lo avevo mai chiamato per nome e non mi ero mai permesso di dargli del tu. Il Maestro era il padre di Roberto, mio compagno di scuola, e con Aprustum avevamo avuto modo di collaborare con lui in un paio di occasioni.
La prima volta era stato proprio lui a suggerirci una locandina per Natale in Casa Cupiello, opera di Eduardo da lui amatissima per ovvi motivi. Il suggerimento era prezioso e noi ci lasciammo sorprendere. Tracciò uno schizzo su di un foglio bianco e mi disse: “Stampalo su una carta da pacco”. Portò bene: ne venne fuori una bella locandina, con la cura grafica di Cesira Paolini, e uno spettacolo da cinque sold out, al rinato Sybaris. La seconda volta lo coinvolgemmo, assieme al compianto Maestro Le Voci, in un’impresa ben più interessante per il suo genio. C’era da interpretare i sette vizi capitali. Sette sculture: Accidia, Avarizia, Gola, Invidia, Ira, Lussuria, Superbia. Ne vennero fuori sei capolavori. Non era soddisfatto dell’interpretazione della lussuria, che sostituì nella mostra all’ultimo minuto. In quegli anni frequentavo la bottega assiduamente ed ebbi la fortuna di vederlo all’opera con la creazione della Via Crucisper la chiesa della Trinità. Erano delle sculture straordinarie e in più occasioni profittai della grazia del suo racconto sull’idea compositiva dell’opera. Da regista sprovveduto ero impressionato dalla teatralità delle scene e dalla visionarietà creatrice del movimento delle figure. Anni meravigliosi e privilegiati. A lui devo moltissime cose: il ringraziamento per non avermi mai trattato con sufficienza, la scoperta di un’arte alla continua ricerca di un equilibrio formale ed espressivo e la misura, che continuando a scrivere rischierei di perdere.
Qualche volta mi invitò a dargli del tu, ma ho continuato a chiamarlo Maestro ed usare il voi. Saperlo affaticato e debole fa risuonare i colpi vigorosi con cui faceva cantare la pietra, lo stesso canto di una banda dipinta che sabato gareggiava con la musica di Roberto.
Francesco Gallo
apparso su asteriscoduepuntozero