Buon condotta del 4 ottobre 2018.

Si comincia con un meccanico di nome Dante ed una biciclettina rossa.

Il testo d’ingresso  è un momento appassionante della mia professione. E’ come quando si apre il sipario, come quando il direttore d’orchestra, constatata l’attenzione dei suoi orchestrali, serra la bacchetta per prepararsi all’attacco dell’ouverture.

Il testo scelto è quello di Enzo Cei: un fotografo, prestato alla letteratura. Uno di quelli che racconta a partire da un’immagine. Non si tratta certo dell’Olimpo letterario italiano, ma la misura è quella giusta e la lingua precisa ed essenziale, come il desiderio appeso alle lezioni che verranno.

Chiedo silenzio.

Consegno personalmente uno ad uno i plichi A4 su cui è stampata la prova.

Dico loro di leggere con attenzione e rispondere possibilmente a tutte le domande.

Essendo un test d’ingresso non ci sarà voto: sono le prime pedalate.

-Buon lavoro, ragazzi.

Mi siedo in cattedra e li guardo mentre leggono: dal niente al tutto.

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Secondo me avevo quattro anni. Non andavo ancora a scuola, sicuramente no. Fu detto che c’era questa possibilità, ma quello che mi ricordo è come questa notizia mi arrivò: da sola, senza che fosse chiamata.
La notizia che qualcuno aveva una biciclettina adatta a me e che me la poteva dare, bastava aggiustarla.
E infatti arrivò, come una meraviglia, ma per un guasto meccanico non riuscivo a pedalarci. Potevo montarci senza pedalare.
Era rossa, tinta a mano. Piccolina, col sellino nero. Il telaio rosso e il manubrio tinto in alluminio per poterla far sembrare un po’ nuova, chi sa le mani che aveva passato.
L’effetto dirompente era poter avere un oggetto neanche pensabile. Nessuno poteva sperare di avere una bicicletta a quell’età, tra bimbi contadini come noi.
Non era un oggetto del desiderio perchè non arrivava neppure a essere pensato, nacque nel momento che me lo dissero. Si accese solo in quel momento, dal niente al tutto.
Non so se si può capire uno stato di incontaminazione dal desiderio, oggi si nasce con i desideri nelle tasche, di cose che si avranno, o prima o poi.
Conoscere soltanto i confini della propria corte, oltre che della casa attaccata alla stalla. Le persone dovevano occuparsi di portare avanti quello che gli era stato affidato, la terra, la casa, gli animali.
Le relazioni con le altre famiglie erano su queste cose, tutt’al più ricorrevano le storie del tempo del fascio, o della guerra passata da una decina d’anni, e dieci anni sono molto pochi per una cosa del genere.
Senza comprare il mondo finisce lì.
In casa non c’era un oggetto in più che non fosse necessario, nessuno portava a casa qualcosa: quello che c’era c’era e tutto quello che c’era serviva, bastava saperlo usare.
Nessuno spazio per il superfluo, sia materiale che no.
Questo accadeva quarantacinque anni fa, in questi posti, e non di là dal mondo.

La bicicletta. Forse in casa mia c’era una bicicletta: ce n’era una, era da donna, mia madre se la portava dietro da quando era ragazza.
Non c’era una famiglia di contadini che ne aveva due o tre. La bicicletta serviva per andare dal dottore, per andare in Comune o a trovare un parente malato. Non c’erano tanti altri usi.
Una bicicletta piccina per un bimbo di quattro cinque anni era fuori della logica.
Altre erano le cose che distinguevano le famiglie dei contadini: ad esempio come era tenuta la stalla, saper accudire le vacche e saperle far partorire. Oltre che conoscere le stagioni o i bisogni della terra.
Scegliere le giornate giuste per la semina, sapere la maniera migliore per arare un campo, sapere il sistema per evitare all’acqua di ristagnare nel basso.
Da questo venivano i riconoscimenti che distinguevano gli uomini l’uno dall’altro. Insieme al valore dell’onestà..
Non mancavano famiglie che intraprendevano nuove strade, quella, soprattutto, di far fruttare in soldi la roba coltivata. Si piantava solo il necessario. Cogliere delle verdure in più era già un evento, un evento che portava queste verdure sui banchi di piazza: voleva dire soldi guadagnati e portati a casa.
In casa mia questo non c’era, perché il mio babbo non voleva disobbedire i patti della mezzadria, ma di soldi ce n’era bisogno. E poi a lui l’orto non piaceva, era più bravo col trattore della fattoria.
Questa bicicletta non richiesta rappresentò la nascita senza semi di un qualcosa da desiderare, perchè per soddisfare la voglia di usarla occorreva una riparazione.
Era indispensabile cambiarle un pezzo e fu portata dal meccanico delle biciclette, che era sulla strada, mentre la nostra corte era nell’interno.
Si chiamava Dante. Fu chiesto a Dante di accomodarla e date le condizioni di casa, la richiesta non fu fatta come se la bicicletta fosse di un grande. Gli fu data così, dicendo:
– Guarda, quando puoi, se gliela accomodi. E’ sua, quando puoi .…..
Non ci doveva essere da pagare.
Certo, a Dante, saranno arrivate da casa mia altre richieste più importanti di questa, come aggiustare la carrozzina di Lino, o simili che sarebbero potuto arrivare in futuro. I conti si potevano pagare con delle uova.
Capitava spesso di usare le uova al posto dei soldi.
Insomma, questa fu la ragione per cui la biciclettina fu appesa in alto.
La stanza dove Dante lavorava aveva pareti nere, scure, e lei era stata messa fuori portata e lontana da tutte le biciclette che prima o poi sarebbero state sistemate.
Forse era l’unica bicicletta di un bimbo, di sicuro era così.
Per andare alla bottega, si doveva passare di fronte all’officina, mia madre sperava che la bicicletta sarebbe stata accomodata, infatti mi portava con sé per mano e quando s’era di fronte all’officina chiedeva se era pronta.

La bicicletta stava sempre lassù, sempre fuori portata.
Mia madre ci teneva, glielo avrà anche ripetuto.
– Via, giù, guarda un po’ se gliela sistemi ..….
A ogni promessa ci si attaccava il desiderio, il desiderio di staccarla e portarla in corte, e farmi vedere a tutti.
Questo non fu possibile.
Lei rimase lassù, io rimasi con tutta la mia voglia, e Dante con le sue promesse.

                                           (da: E. Cei, Ai piedi dei miei anni, Lucca, 2004)