La metafisica del Teatro. A colloquio con Enzo Moscato.

Non capita spesso di trovarsi di fronte ad un autentico Maestro come Enzo Moscato. A me è successo domenica 26 marzo 2017, in occasione della messinscena, al Teatro Temple di Sassuolo, di Compleanno, testo scritto dal Maestro Moscato in omaggio al drammaturgo, attore e regista napoletano, Annibale Ruccello, scomparso prematuramente nel 1986 all’età di trent’anni, in un tragico incidente stradale. Moscato è considerato l’interprete di un nuovo teatro di poesia, che riconosce i suoi ascendenti non solo nei grandi autori e compositori napoletani, ma in Artaud, in Genet, nei poeti maledetti di fine secolo, in Pasolini. Tra i suoi lavori “Embargos” (premio UBU 1994), “Rasoi” (premio della Critica italiana, Biglietto d’ oro Agis), “Pièce Noire” (premio Riccione per il Teatro 1985). Al suo attivo anche 4 cd, come chansonnier/rivisitatore dell’ universo canoro partenopeo e non: “Embargos” (1994), “Cantà” (2001), “Hotel de l’univers” (2005) e “Toledo Suite” (2012). Importanti anche le sue prove nel cinema tra cui, “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, “Libera” di Pappi Corsicato, “Il viaggio clandestino” di Raul Ruiz, “ I Vesuviani “ nell’ episodio di Antonietta De Lillo, “Mater Natura” di Massimo Andrei. I suoi modi sono quelli dell’estrema gentilezza, la sua voce pacata. Il tratto peculiare del suo dire è l’idioma partenopeo.

Maestro, lei è un drammaturgo, un attore, un regista, un cantante, insomma la persona ideale a cui chiedere qualcosa sul mestiere del teatro…
«Io non so se per me si possa parlare di mestiere. In realtà non so neanche se si possa parlare di mestiere per quanto riguarda il teatro e gli attori in generale. So che solenni personalità prima di me, nei secoli, hanno parlato del mestiere del teatro, ma non so se sia il termine giusto. E’ chiaro che si tratta di un fatto personale, di come si legge la vicenda del teatro del perché quella vicenda ti colpisce, perché sei tu che finisci col farlo. Il mestiere è qualcosa che si può apprendere e si apprende con gli anni, più che su basi teoriche precedenti. Prima di farlo puoi leggere, informarti; puoi andare a scoprire chi ti ha preceduto, chiederti cosa sia stato il teatro e nella fattispecie il teatro occidentale, nella sotto fattispecie il teatro italiano, nella sotto sotto fattispecie il teatro napoletano, il teatro siciliano o veneto. Voglio dire che il mestiere si apprende, si apprende facendolo. Questo mi appartiene perché io non ero nato, o perlomeno non pensavo di essere nato, per fare il teatro; mi ero formato culturalmente per fare un’altra cosa: l’insegnante di storia e filosofia, il ricercatore. Il teatro è capitato poi come destino: prima di scrittore e poi di performer. Ormai sono quasi 40 anni che lo faccio e credo di aver imparato a lavorare in uno spazio, di fronte ad un pubblico vivo, partecipe, non stantio come lo spettatore televisivo o cinematografico. Nonostante questo, considerato il fatto che il teatro non è un’esperienza di felicità o di beatitudine, soprattutto in una società che diventa sempre più indifferente al teatro stesso, mi sono sempre più convinto con il passare degli anni che si tratti nel caso di mio, e anche nel caso di altri che ci sono, non ci sono più o ci sono stati, di vocazione. Un fatto sacerdotale. Questo perché spesso ci si trova a sopportare le croci, le delusioni, più che ricavarne soddisfazione. Il mestiere del teatro è duro, ma la vocazione lo è di più. Il mestiere lo si può abbandonare per un altro, ma la vocazione, ahimè, devi sopportarla perché non dipende dal soggetto, ma dipende dal Dio o da un’altra entità metafisica. Tu puoi solo eseguire e basta.»

In un mondo in cui la metafisica è stata messa in fuga che ruolo ha il teatro?
«La consolazione. Spesso a me la consolazione. La risposta a questa domanda nasce dai miei studi filosofici, da quello che ho fatto precedentemente e quello che ho continuato a fare da solo poi, come studioso della disciplina e non come insegnante. Il teatro deve tendere alla metafisica. Pirandello ce lo ha insegnato: il teatro è questo, ma anche oltre questo. Per me è difficile vedere, guardare con indifferenza la destinalità a cui lo stanno portando il teatro, se c’è. Completamente laicizzato, privo di un altrove, privo di un al di là anche nel senso più pagano del termine. Ecco a mio avviso per avere una buona educazione teatrale è assolutamente impossibile prescindere da una formazione filosofica.»

Cos’è “Compleanno”?
«Compleanno è un esempio di ciò che stiamo dicendo. Io mi diverto sempre a parlare di Compleanno. Quest’anno lo stiamo riproponendo a 30 anni dalla morte di Annibale Ruccello, per la quale il testo è stato scritto. Lo si può leggere come si vuole. Lo si può leggere come una performance di mestiere, una performance di autore-attore e lo si può leggere dal punto di vista dei contenuti come una ricerca dell’altrove, dell’aldilà, una ricerca oltre il limite del teatro stesso. Contemporaneamente è anche un’altra cosa nella mia vicenda personale. Io sono napoletano, napoletanissimo: ho radici profondissime nella città tanto è vero che ci vivo con tutti i disagi che comporta oggi vivere a Napoli. Io sono nato, cresciuto, ho studiato, vivo e penso che morirò a Napoli. Quindi come tutti i napoletani che hanno fatto teatro o che hanno fatto canzone, i due poli della cultura partenopea su cui io mi sono affacciato, mi sono dovuto confrontare con quelli che mi hanno preceduto. I nomi sono tanti: Eduardo, Viviani, Petito, Scarpetta andando indietro. Il teatro napoletano è stata farsa, narrazione con qualche sporadico episodio di essere più di questo. Il teatro di Viviani lo considero un teatro mitteleuropeo, un teatro con aspirazioni più ampie di ciò che ti può offrire Eduardo. Eduardo propone interni, non si affaccia quasi mai sul vico, sulla strada, sull’agorà. Io mi sono trovato a fare i conti con un teatro un po’ costretto dal punto di vista della forma in determinate dimensioni. La forma di Compleanno, invece, è strana. E’ un monologo, un soliloquio, ma scritto come se io fossi il compariello di Beckett. E’ strano sentire la lingua napoletana dentro una forma azzardata dal punto di visto comunicativo. Si tratta di un delirio completo, difficile da ricondurre al significato. Il testo è un atto di dolore per una scomparsa. Il protagonista è l’assenza con la a minuscola e con la maiuscola. E’ l’assenza dell’amico Annibale Ruccello e l’assenza che rimanda ai grandi temi di Beckett, Pinter, Artaud, Genet e mi spiace non poter nominare molti italiani. Testori è uno di quei pochi che si possono citare, grande autore colpevolmente ancora poco conosciuto o possiamo tornare al Pirandello dei Giganti della Montagna, dei Sei Personaggi in cerca d’autore. Si tratta di più di una narrazione da palcoscenico. Compleanno è certamente stilisticamente legato a questo universo variegato. Ho cominciato a scrivere in questa forma e lo faccio ancora oggi sia pure con delle pièce che non hanno un solo attore in scena, ma più attori. Per me o è uno o è mille. Festa e lutto contemporaneamente.»

Come è riuscito scardinare una lingua per inventarne di fatto una nuova?
«Io appartengo a quella generazione che è stata definita nuova drammaturgia napoletana ed ha rappresentato il dopo Eduardo. Io credo di poter parlare a nome di Ruccello, che ho conosciuto benissimo, a nome di Santanelli. Per Annibale posso dire che era uno che veniva dalla filosofia, laureato in Antropologia Culturale con De Simone pensando al teatro. Santanelli dal punto di vista formale è più ortodosso, ma dentro si legge Pinter, l’inquietante che non appartiene immediatamente alla tradizione drammaturgica italiana e nella fattispecie a quella eduardiana. Credo che per tutti noi sia stato un atto consapevole ed inconsapevole di rottura. Il mio primo testo canonico è Scannasurice, in queste ultime stagioni ripreso dalla Regia di Cerciello con una bravissima Imma Villa, ma quando scrissi quel testo non avevo in testa una teorica di sfaldamento della lingua napoletana. Mi è venuto di getto non scrivere in una lingua ordinaria, consueta, fatta di attese, prevedibile. Forse la ragione è rintracciabile nel mio percorso culturale. Avevo scritto dei saggi su Rimbaud, da cui poi nacque uno spettacolo nel 1997. Ero per questo già abituato ad una lingua poetica. Amavo Di Giacomo, Anna Maria Ortese. In realtà credo che dal punto di vista generazionale eravamo pronti a dare quella connotazione alla lingua.»

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