PRESS 24 aprile 2019
24 Aprile 2019
Incontrare Francesco Gallo vuol dire, fortunatamente, non doversi porre dei limiti: di argomenti, di toni, di passione. Con lui – teatrante completo e versatile, già libraio (innamorato della sua “Moby Dick”, libreria dove fermarsi per comprare, leggere o discutere era una lieta consuetudine), ora docente, scrittore e promotore di iniziative culturali – si parla di tutto, anche perché in fondo tutto è teatro, nel senso di essere materia di racconto, di invenzioni e metafore, di tempi, di sollecitazioni e di sensazioni, ma pure di ragionamenti e di “rapporti con gli argomenti”, per generare incertezza cioè la ricchezza di altre ragioni. Anche il silenzio, forse soprattutto quello, è teatro. Lo spazio dentro cui lo spettatore è chiamato a intervenire, a costruire, a soffiare nella messinscena il respiro della sua esistenza, della sua felicità e della sua angoscia. E dove trovare la forza, il coraggio, in un certo qual modo l’avventatezza per superare il “terrapiattismo” che pervade i tempi. Impressi in due occhi ironici e inquieti, ecco far capolino la rincorsa del mondo sul crinale di un inesauribile arco di espressioni. L’argomento del nostro incontro, questa volta, è Finale di quadrimestre, l’ultimo lavoro in ordine di tempo di Aprustum, ovvero casa sua, di cui Francesco Gallo è autore (in collaborazione con Rosa Maria Cappelli, Domenico Perri e Vito Valente e grazie al lavoro sulla scrittura scenica svolto con la compagnia), regista e interprete: un progetto ambizioso, molto articolato ed impegnativo sin dalla scelta di prendere le orme di quel capolavoro del teatro di tutti i tempi che è Finale di partita di Samuel Beckett, per farne una vasta, intelligente riflessione sulla scuola d’oggi, sulla sua identità smarrita, sul suo ruolo tradito, sulla sua missione (forse) impossibile.
Cominciamo l’intervista partendo, et pour cause, proprio da Finale di quadrimestre, pièce presentata in anteprima al Teatro della Chimera, grazie alla disponibilità dell’omonima compagnia teatrale, e prossima (4 maggio prossimo venturo) al debutto al Sybaris di Castrovillari. Come dire che si parte dalla coda. Tanto per navigare, ancora una volta, per mare contromano…
Come nasce “Finale di Quadrimestre”?
Ho lavorato su “Finale di Partita” di Samuel Beckett la prima volta nel 2010, proprio a scuola. Ero alle mie prime esperienze teatrali in Emilia Romagna e un’associazione (n.d.r. CREA, associazione di cui poi è divenuto Presidente) mi chiese di tenere un laboratorio. Gran parte dei ragazzi che parteciparono al lavoro portavano in dote particolari fragilità. Il laboratorio era finanziato dal MIUR e il percorso durò dai primi di ottobre sino a giugno. Purtroppo oggi i laboratori teatrali a scuola sono comete della durata di poche settimane. Pensai che nessuno meglio di Samuel Beckett potesse restituire la bellezza e il dolore di quei ragazzi, il coraggio e la grazia di quegli sguardi. Erano in tanti ed i testi beckettiani sono generalmente fatti di poche voci. Decisi così di cominciare a lavorare su un adattamento che potesse amplificare le voci e far entrare il mondo degli studenti nella scena beckettina. Una sfida complicata che resistette alla prova per quasi due anni. Nel 2012, partecipammo al FESTIVAL INTERNAZIONALE DELLE ABILITA’ DIFFERENTI. Vincemmo l’OPENFESTIVAL, conquistando sia il premio come miglior spettacolo, che quello come miglior attore protagonista. Per l’occasione il MaestroVittorio Franceschi, uno dei più grandi uomini di teatro di questi dolorosi tempi, registrò un monologo per noi. Varrebbe la pena di venire al Sybaris il prossimo 4 maggio solo per ascoltare quella preziosissima registrazione. Fu poi Vito Valente ad affondare le mani nel testo, trasformando la pièce beckettiana in un lavoro sulle dinamiche scolastiche. Nel 2013 lavorammo con Vito su L’ultimo Nastro di Krapp, approfondendo il mondo del noto drammaturgo irlandese, in particolare gli aspetti che ragionavano del fallimento. Ritornato in Calabria, lo scorso anno, decisi al ITC Palma di Corigliano (La scuola dove ha lavorato come insegnante di Italiano e Storia lo scorso anno scolastico) di riprendere il lavoro sul filone dell’assurdità della scuola. Ne venne fuori un piccolo saggio scolastico. Arrivato ad Aprustum, pensai di coinvolgere Rosa Maria Cappelli, professoressa in pensione da molti anni, in questo nuovo scavo sulla scrittura di scena. Assieme a noi: Domenico Perri, Luana Fazio e Luigi Pulice e Giulia Gesualdi. Mi sembrava il momento giusto per concretizzare un desiderio che veniva da lontanissimo.
Perché proprio Beckett e la scuola, due temi di non facile trattazione?
Beckett è un autore universale. Se avessimo deciso di portarlo in un cantiere, sono sicuro che avrebbe dato vita ad architetture altrettanto interessanti. L’unica cosa che mi pare possa avere un valore aggiunto è la condivisione dell’universo scolastico. Mentre non capita a tutti di impastare calce, o di trovarsi di fronte ad un intonaco, tutti sanno cosa sia un’interrogazione, tutti hanno provato le gioie e le miserie della scuola. La scuola, più di altri campi, resta un paradigma significativo. Del resto insegnare ed imparare sono verbi che si imparano a coniugare prestissimo.
Sulle difficoltà delle tematiche mi basterà dire che per generare qualcosa di semplice c’è bisogno di complicarsi la vita sino in fondo. Se il nostro spettacolo non è abbastanza semplice vuol dire che dovremo fare qualche altro passo verso il burrone. In tempi di terrapiattismo, ne troveremo di certo.
Come ti senti di nuovo con Aprustum, dentro le dinamiche, umane e culturali, della compagnia che hai contribuito a fondare?
Aprustum è cambiata molte volte in questi anni. Mi è già capitato di scrivere che quando un’associazione vive dentro una comunità per 25 anni finisce per essere un pezzo di storia della comunità stessa, costringe i cittadini a domandarsi il motivo di un incontro. Per me Aprustum resta un pezzo importante della mia vita. Nonostante questo, ho cercato, sin dal primo giorno, di mostrare l’educazione dell’ospite: di rispettare persone e cose ritrovate nella nuova sede in via Miraglia. Non esiste più il teatrino che avevo contribuito ad allestire, ma l’attività non si è mai fermata. Aprustum ha continuato ad impestare il mondo di teatro in tempi difficili. Non manca nemmeno un anno al conto degli spettacoli regolarmente messi in scena dal lontano 2006, anno della mia partenza, ad oggi. Gran parte del merito è certamente di Massimo (ndr Casimiro Gatto, Presidente di Aprustum), amico, professionista del teatro e straordinario formatore. Il tempo però non passa invano ed il mio ritorno è figlio di nuovi equilibri, tutti da definire. Quindici anni fa non facevo l’insegnante, non avevo la gioia e la responsabilità di essere padre e marito e, probabilmente, avevo più voglia di adesso di fare l’attore. E’ per questo che ho fondato, assieme ad alcuni amici, Menodiunterzo. E’ una associazione di promozione sociale, che prende corpo da una costola di Aprustum. Sarà utile per continuare il mio piccolo percorso di ricerca senza correre il rischio di scambiare questi anni con quelli già vissuti e per non turbare più del dovuto una pratica teatrale che, senza di me, è andata avanti macinando successi per un decennio. Spero che gli amici di sempre possano comprendere la gioia e le disavventure dei viaggi di ritorno verso casa, tradizionalmente difficili. Quello che mi auguro è di poter segnare nuove rotte: essere foriero di nuovi progetti. Aprustum e Menodiunterzo sono due facce del medesimo soldo. Il conio è quello prezioso della passione che dura nel tempo.
Cos’è per te il teatro e cosa significa lavorare sia nella solitudine della scrittura che nella condivisione del gruppo?
Per quel che mi riguarda, il teatro è uno strano modo di vivere. Dal 1991, quando incontrai il direttore Aldo Schettini a scuola, incontro che avvenne nei gloriosi anni del laboratorio di teatro della ragioneria (si fa riferimento agli anni in cui l’ITC Pitagora di Castrovillari era una delle poche scuole ad avere un laboratorio di teatro) non ho mai trascorso un anno senza la pratica teatrale.
In alcuni periodi è stata la mia attività prevalente. Non sono un professionista e ho un enorme rispetto per chi di questo lavoro ha fatto la sua professione, ma credo di approcciarmi al teatro con la devozione che si deve a quest’arte nobilissima. Il teatro è il Maestro più importante che ho avuto nella mia vita: mi ha costretto all’ascolto, alla memoria e all’azione. Se non avessi fatto teatro sarei certamente un uomo peggiore, più stupido e miope di quello che sono ora.
La mia pratica con la scrittura è molto recente. E’ stata una conquista. Non avendo fatto studi classici, ho sempre guardato alla scrittura con timore. Ancora oggi sento di non essere a mio agio e non di rado mi capita di incappare in errori antichi. Nonostante ciò, scrivere è diventata una necessità. Il mio modo di scrivere è però quello di uno che traduce un sentire. Sarà questo il motivo per cui non percepisco il lavoro dello scrittore come lavoro fatto in solitudine. Le mie uniche pubblicazioni sono libri per bambini e devo dire che non ho mai lavorato solo, ma con l’ausilio degli illustratori. Grazie alle loro immagini le storie sono nate almeno un paio di volte. Con il tempo mi sono sempre più convinto che lo sforzo artistico è semplicemente quello di un archeologo, che riporta alla luce un sentire sepolto. Siamo continuamente raggiunti da informazioni, notizie, visioni che propagandano un prodotto, impongono un bisogno. L’arte aiuta a proteggersi dal superfluo. Forse per questo è così osteggiata.
Conta di più porsi delle domande, dalle più semplici alle più complesse, o trovare delle risposte?
Le due cose non sono così distanti. Almeno per una ragione, che io considero essenziale: la risposta non è sempre una strada di salvezza. Esercito la professione di insegnante e leggo centinaia di risposte inesatte, imprecise, contorte. In alcune occasioni le domande si configurano come l’unica risposta possibile. Ciò che conta davvero è il rapporto con gli argomenti. Ecco, sì, quello mi sembra determinante. Argomentare in modo stringente, generare da ogni affermazione il lievito dell’incertezza.
Non sarà rassicurante, ma mi pare questo l’unico viatico per non fare del proprio mestiere di uomo una prevaricazione.