Non sono ancora trascorse tre ore dalla fine dello spettacolo che le luci del Trianon sono già spente. Dalla finestra della stanza, però si sente ancora il rumore delle macchine e una cassetta del wc che carica acqua. Chissà se è la stessa che il cielo regala copiosamente?
Non ho ancora ben capito il motivo che mi tiene sveglio, ma credo che abbia a che fare con lo strano rapporto che negli anni ho avuto con Penziere Mieje. Aveva ragione Luca De Filippo a dire che era stato ideato con molto amore, pensato per far conoscere momenti dell’elaborazione creativa di Eduardo poco noti. Sono passati dieci anni dalla sua morte. Ho avuto il piacere di vederlo recitare molte volte. La prima volta nel 1994, ad Altomonte, in una ripresa del Contratto, testo che meriterebbe di essere ancora studiato, capace di raccontare, forse meglio di altri, ciò che ci sta accadendo.
Tornammo ad essere suoi spettatori proprio per Penziere Mieje nel 1996, credo fosse ottobre. Arrivammo al Parioli in taxi con il cuore fermo al girare del tassametro e l’emozione di rivederlo in scena. Ricordo perfettamente la telefonata a Loredana e le parole che rotolavano spinte dallo stupore di quello che avevo visto, sentito, annusato nel teatro che allora per me era quello di Maurizio Costanzo e di Carmelo Bene.
Luca mi ha accompagnato poi negli anni, nel 1997 a Modena, dove sarei diventato padre ed allora mi sentivo semplicemente figlio. Figlio illegittimo di una grande tradizione, ladro di parole e di certi gesti che Luca incarnava alla perfezione nelle pièce di quella sera: Uomo e Galantuomo. La serata passò velocemente: come gli anni in cui l’ho inseguito fra Roma, Cosenza, Napoli, Modena, Bologna.
Stasera al Trianon mi è sembrato di vederlo nuovamente seduto accanto a me in una poltrona vuota, mentre lo stupore per le musiche di Antonio Sinagra si rinnovava. Del resto, non era difficile indovinarlo, fra un pubblico che gli voleva bene, a guardare quelli che sono stati i compagni di viaggio di allora: il Maestro Antonio Sinagra, Mario Castiglia, Lalla Esposito, Lello Giulivo, Alessandro Tumolillo al violino, Ciro Cascino alle tastiere. A completare la band i nuovi Gaetano Campagnolisax/clarinetto, Pasquale De Angelis basso Gianluca Mirra batteria/percussioni, Antonio Ottaviano tastiere. Se non avessi disturbato gli avrei chiesto cosa ne pensava dell’inizio dello spettacolo, incorniciato fuori dal sipario dalla sua voce che canta “’A gatta d’ ‘o palazzo” e da tante fotografie.
Aperta la vela del Trianon Massimo De Matteo, da dietro il suo leggio, inizia con la poesia manifesto del 1948 che apre il volume Einaudi de’ Gli Struzzi. I 90 minuti successivi non saprei ben raccontarli. Colpa della memoria che tornava a suggerire un verso, di mio figlio che chiedeva il significato di qualche parola, di Melina che sillabava la Matassa, colpa della voce di Lalla Esposito che con gli anni è diventata più profonda e più familiare, di Mario Castiglia, di Lello Giulivo, colpa dei capelli bianchi di Antonio Sinagra, che nel 1996 era neri.
Si potrebbe ancora scrivere, se la serata non fosse già stata superlativa, che ad impreziosirla hanno contribuito tre attori di Elledieffe, la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, diretta da Carolina Rosi, seduta in prima fila ed in piedi ad applaudire alla fine dello spettacolo: Chiara Baffi che ha letto ‘E Mmargarite e Mario Porfito che ha letto Napule è ’nu paese curioso e poi Gianfelice Imparato, lo ricordo al Brancaccio interprete di Michele Murri in una regia misuratissima di Luca, con A Sagliuta, imbrogliata da qualche foglio annascunnuto.
A mancare Fore ‘o vascio, Don Amalia, Don Gennaro, Nunziatina, a mancare Angela Pagano, la brava, piccola, spigolosa dalla voce puntuta e particolarissima, scomparsa lo scorso anno e il il Pulcinella di Luca che ancora, stasera, davanti a me nasconde tutti i teatranti che avevo sentito nominare: Da Fiorillo a Petito, da Altavilla ad Eduardo. Quella del 1996 fu una serata di cui parlammo per anni, di quella di stasera ne parlerà per anni mio figlio.
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